Data inizio
18 Gen 2021
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CHE BIO CE LA MANDI BUONA
«In Emilia Romagna tutti gli asili nido sono dotati di mense in cui si servono solo alimenti biologici. Ecco, io se avessi una nipotina non la manderei in quegli asili».
A parlare è Enrico Sala, professore di Botanica e Biotecnologie all'Università Statale di Milano e uno dei maggiori esperti italiani in faccende agroalimentari. La sua è soprattutto una posizione di principio, spiega il professore: «Viene negata la libertà di scegliere e s'impone un cibo sul quale io ho seri dubbi».
Ma lo scetticismo nei confronti dell'agricoltura biologica è tutt'altro che raro tra gli esperti di biochimica e tra chi si occupa di sicurezza degli alimenti. Anche se si tratta di un'eresia rispetto alle nuove tendenze nei consumi alimentari. Fino a qualche anno fa quello biologico era un consumo d'elite. Nei rari negozi dei centri cittadini si trovavano soprattutto gli amanti del naturale a tutti i costi e i salutisti più zelanti. Ma col tempo, tra polli alla diossina, vino al metanolo, pesche avvelenate e mucche pazze, la sensibilità e il grado di allarme tra i consumatori sono aumentati.
Così, grazie anche alla grande distribuzione, che ne è stata tra i principali sponsor, il fenomeno è diventato di massa.
Tanto che da quest'anno i cereali biologici sono entrati nel paniere dei prodotti sui quali l'Istat calcola l'inflazione.
BIO DI MASSA
Il biologico è il settore più in crescita nell'industria agroalimentare dell'occidente ricco. In Europa, che è il maggior produttore mondiale di alimenti, l'Italia ha il primato: il 37 per cento delle aziende biologiche europee sono in Italia. Gli ettari coltivati sono più di un milione e 200 mila. La crescita media europea del settore negli ultimi dieci anni è stimata vicino al 25 per cento, quella italiana al 30. Si tratta di 51 mila aziende agricole e di 6 mila aziende di trasformazione, concentrate per i due terzi nel Sud e nelle isole, per un giro d'affari annuo di 1,6 miliardi di euro. Sono aziende che hanno ottenuto la certificazione e possono vendere i prodotti con il marchio UE e la dicitura «prodotto da agricoltura biologica» , che per i consumatori è sinonimo di metodi naturali e niente pesticidi. Nel 2003, secondo un'indagine della Coldiretti, hanno comprato prodotti biologici otto famiglie italiane su dieci, con una spesa di circa 80 euro l'anno per famiglia. La Demoskopea stima che circa il 23 per cento degli italiani li i li consumi regolarmente.
Negli ultimi due anni la crescita del settore è un po' rallentata. Non è difficile spiegare il perché: i prezzi dei prodotti ortofrutticoli italiani sono aumentati a dismisura, diventando i più alti d'Europa, e i prodotti bio, ancora più costosi, molti consumatori non se li possono più permettere. Si tratta quindi di un problema di portafoglio, non di un'inversione di tendenza. Anche perché le istituzioni (Unione europea, ministero delle Politiche agricole, Regioni) puntano molto sul bio, un settore ad alto valore aggiunto e uno dei modi con i quali si cerca di ridare smalto all'agricoltura italiana, minacciata dalle importazioni a basso prezzo dagli altri paesi del Mediterraneo e dall'Est europeo.
FIDUCIA CIECA
Le ricerche di mercato confermano che si acquistano i cibi definiti «biologici» perché si pensa siano più sani, nutrienti e rispetto si dell'ambiente. Una fiducia nelle virtù della naturalità su cui da anni puntano gli uffici marketing delle aziende alimentari e che nel caso del bio, come indica una ricerca commissionata un paio d'anni fa dalla Invemizzi, fa presa soprattutto sulle madri di famiglia dei ceti medio alti, che si sentono rassicurate spendendo il 30 per cento in più per una carota o un succo di frutta col marchio biologico. In realtà i cibi biologici nonsono più salutari o sicuri di quelli prodotti dall'industria agroalimentare convenzionale, e e e chi solleva dubbi anche sul fatto che le coltivazioni bio siano meglio per la natura. «Non ci sono basi per affermare che il cibo biologico sia più sano, ma il 26 per cento dei nostri consumatori lo crede», ha affermato Tony Sullivan, a capo del settore acquisti di Sainsbury, una delle maggiori catene di supermercati del Regno Unito, in occasione della Conferenza europea sull'agricoltura biologica tenutasi a Bruxelles a fine gennaio. In effetti, è la stessa Unione europea ad ammettere i limiti del bio. La normativa comunitaria che dal 1991 regola il settore (Regolamento Ce 2029/91) all'articolo 10 recita: «Nell'etichettatura o nella pubblicità non possono essere inserite affermazioni che suggeriscano all'acquirente che l'indicazione di alimento biologico costituisce una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore». Antony Trewavas, professore di biochimica dell'Istituto di biologia molecolare e cellulare dell'Università di Edimburgo, nel suo studio Urban myths about organic agricolture (Miti urbani sull'agricoltura biologica) afferma: «L'agricoltura biologica è un'ideologia, non una scienza. I pesticidi sintetici sono usati da cinquant'anni, in questo periodo l'incidenza del cancro è diminuita del 15 per cento e quella del cancro allo stomaco, tipica patologia alimentare, è diminuita del 50 per cento».
Secondo Trewavas, paradossalmente, reali rischi per la salute si corrono se per acquistare costoso cibo biologico si diminuisce il consumo complessivo di frutta e verdura. Secondo le ricerche d Bruce Ames, considerato il più autorevole tossicologo americano, il 99,99 per cento delle tossine che ingeriamo derivano dalle piante stesse e non dai prodotti sintetici utilizzati in agricoltura. Ames stima che ogni giorno noi ingeriamo 1,5 grammi di tossine «naturali» e meno di un milligrammo di pesticidi sintetici; mediamente una tazza di caffè contiene una quantità di tossine naturali superiore al quantitativo di tossine sintetiche che ingeriamo in un intero anno permesse, la sostanza sia dannosa. Dario Frisio, professore di Economia ed estimo rurale alla Statale di Milano, sottolinea che il livello di controllo è alto: «Tutti i nuovi prodotti chimici devono superare gli esami dell'Unione europea e per quelli già in commercio c'è un costante processo di revisione. Nell'Unione europea abbiamo delle soglie d'impiego più basse di quelle indicate dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità». La maggiore efficacia dei prodotti chimici moderni ne permette peraltro un utilizzo limitato. Dice Sala: «I pesticidi moderni sono più efficaci e più degradabili di quelli usati 20 anni fa». In pratica, secondo l'esperto lasciano residui nulli ,o insignificanti, sia nel terreno, sia sui prodotti che arrivano sulla tavola.
Anche in agricoltura biologica i pesticidi sono ammessi, per lo più si tratta di sostanze di origine naturale, circostanza che però non li mette al riparo dalla tossicità. Tra quelli comunemente usati, un batterio chiamato Bacillus thuringiensis, una sostanza chiamata Rotenone e il solfato di rame. Ricerche condotte in Francia e Canada (i risultati sono stati pubblicati anche dalla rivista britannica New Sdentisi nel 1999) hanno evidenziato come il Bacillus thuringiensis causi infezioni polmonari letali nei topi. Il Rotenone, un insetticida chimico di origine vegetale, secondo diversi studi (l'ultimo condotto nel 2003 dal Centro per le malattie neurodegenerative dell'Università di Atlanta, Stati Uniti), provoca ai topi il morbo di Parkinson. Il solfato di rame («verderame»o «poltiglia bordolese») è un metallo pesante usato fin dall'Ottocento per disinfestare le viti. Ora proibito in Olanda e Danimarca, il solfato di rame, oltre a essere poco biodegradabile e altamente inquinante per le acque, è tra le principali cause di intossicazione di animali domestici nelle campagne e, secondo il National institute of health americano, l'esposizione prolungata a questa sostanza è causa di gravi patologie al fegato nei viticoltori. Insomma anche i prodotti usati nelle coltivazioni biologiche sono potenzialmente dannosi, il tutto sta nell'uso che se ne fa. Ma una fonte di rischi sembra essere anche la parte più genuinamente biologica dell'agricoltura bio. Afferma Robert Madelin, della direzione generale Salute e tutela dei consumatori della Commissione europea: «Va detto che ci può essere un rischio maggiore di esposizione a rischi microbiologici o contaminazione con tossine. Il rischio può aumentare con l'utilizzo dei letami al posto dei fertilizzanti chimici, o per la proibizione di alcuni additivi chimici e processi tecnici. Il rischio di contaminazione con micotossine potrebbe essere maggiore perché i cibi biologici non sono trattati con fungicidi». Secondo Sala, uno dei principali difetti dell'agricoltura biologica sta nel fatto che utilizza le stesse piante dell'agricoltura convenzionale, «piante selezionate negli anni Sessanta per dare tanto prodotto e di qualità, senza preoccuparsi della resistenza ai parassiti e ai funghi, tanto ci pensava la chimica». Queste piante, se non sono trattate adeguatamente, sviluppano sostanze altamente tossiche. «Prendiamo il mais: viene assalito da funghi che frequentemente producono aflatossine, sostanze cancerogene per il fegato. Il mais biologico arriva a contenere 20 volte più anatossine di quello da agricoltura convenzionale», conclude il professore.
«Le aflatossine? Sono rischi relativi a come vengono immagazzinati e conservati i prodotti, non a come vengono coltivati», ribatte Enrico Erba, direttore dell'Associazione italiana agricoltura biologica. L'Aiab considera infondati gli allarmismi sul biologico. L'incertezza e l'interpretabilità dei risultati scientifici non aiutano a dirimere la questione. I sostenitori del biologico comunque ne ammettono tranquillamente i limiti. ''L'argomento che il bio è più sano non è sostenibile''-confema Enrico Erba- ''infatti l'agricoltura biologica nasce per un problema ambientale''.
LETAME: UN BELL'AMBIENTE?
Francesco Bettolini, professore di Istituzioni e governo dell'ambiente all'università Bocconi di Milano, è un consulente del ministro delle Politiche agricole Gianni Alemanno: «I maggiori costi del cibo biologico sono giustificati dal risparmio in termini di collettività e dai benefici sociali», spiega. «In agricoltura convenzionale ci sono, per esempio, diserbanti che inquinano le falde acquifere». Alla Bocconi hanno calcolato un costo tra gli 88 e i 119 milioni di euro se si decidesse di bonificare le acque italiane dai fitofarmaci e dai fertilizzanti chimici.
I danni all'ambiente sembrano però essere soprattut- to un retaggio del passato, o la conseguenza di un utilizzo illecito della chimica. Un esempio: fino agli anni Ottanta uno dei diserbanti più diffusi era l'atrazina, sostanza che ad alte concentrazioni è tossica per l'uomo e che finisce nelle falde idriche. E stata messa fuori legge in Italia dieci anni fa, sostituita da un glifosfaro di nome Round up, il diserbante più usato al mondo, brevettato dalla multinazionale Monsanto (va detto, è quella tristemente nota per l'agente Orange, diossina buttata a tonnellate sul Vietnam, e altri disastri). Questo prodotto è biodegradabile al 100 per cento. Usato correttamente è considerato innocuo dall'Oganizzazione mondiale della sanità e dall'Environment protection agency statunitense, non figura tra i prodotti chimici «pericolosi» nella classificazione della Direttiva UE 78/631/Cee.
Secondo Sala, «è peggio ingerire un cucchiaio di sale che un cucchiaio di Round up. Se ne utilizzano 20 grammi per ettaro e si degrada nel campo in tre settimane».
Certo, la chimica applicata all'agricoltura ha prodotto danni e ne può ancora produrre, ed è evidente che l'interesse delle multinazionali del settore è il profitto più che la salute o l'ambiente. Ma un'analisi priva di pregiudizi mette a confronto le possibili alternative. Prendiamo i fertilizzanti: meglio i fertilizzanti naturali usati in agricoltura biologica, come il letame e i liquami, o i prodotti di sintesi? Letame e liquami, oltre a essere un concentrato di batteri, contengono alte concentrazioni di azoto e liberano ammoniaca, con conseguenze che possono essere dannose per il suolo, le acque e gli ecosistemi. Studi condotti in Olanda, Germania e Gran Bretagna hanno mostrato come l'uso intensivo di letame e liquami abbia portato a eutrofizzazione di laghi e fiumi. Secondo Trewavas, «confrontata con l'agricolura convenzionale, condotta secondo i principi della buona pratica agricola, l'agricolura biologica non ha alcun aspetto più positivo riguardo all'ambiente».
T'AMO BIO BOVE
C'è un ambito nel quale la scelta biologica è certamente coerente con una sensibilità ambientalista e animalista: quello della zootecnia. Aria aperta, pascoli, allevamenti a terra: i circa un milione e 800 mila animali allevati nelle aziende agricole bio dovrebbero fare una vita migliore dei loro colleghi dell'industria agricola convenzionale. I principi dell'agricoltura biologica sono infatti contrari a quell'allevamento ipermeccanizzato e intensivo che costringe i polli in batterie sospese da terra, i maiali in box che impediscono i movimenti o i bovini alla catena. Un sistema al quale gli esperti peraltro riconducono il diffondersi di malattie e pericolosi virus come l'influenza aviaria.
Anche qui la realtà bio non è però tutta rosea. Basta dare un'occhiata ai regolamenti che disciplinano l'allevamento per rendersi conto che c'è una deroga per quasi ogni norma. Solo per fare qualche esempio: i bovini devono disporre di pascolo «tutte le volte che questo sia possibile», la catena è proibita, «salvo che per le aziende che hanno meno di 30 bovini adulti». I conigli dovrebbero stare in libertà ma «è ammesso, in deroga, l'allevamento in gabbia». Il problema è che, semplicemente, gran parte degli allevatori fatica a mantenere l'azienda redditizia o non è in grado di adeguare strutture preesistenti. Le deroghe sono autorizzate dagli organismi di certificazione e controllo, strutture che dipendono economicamente dagli stessi agricoltori biologici.
CERTIFICAZIONI, ETICHETTE E FRODI
Va detto che, al di là della sicurezza intrinseca, gli alimenti biologici sulla carta qualche garanzia in più la offrono. Le norme europee stabiliscono che nel sistema biologico tutti i passaggi, dal seme al piatto, siano certificati. Sono inclusi i prodotti trasformati; gli ingredienti di un biscotto o di una marmellata bio devono essere tutti certificati. Insomma, garanzie e soprattutto «rintracciabilità», che dovrebbe identificare e responsabilizzare chi è coinvolto nella produzione. È ciò che si sta cercando di fare anche per gli altri prodotti agricoli. Per la carne bovina l'etichetta è già obbligatoria, presto lo sarà anche per il latte e la Coldiretti si sta battendo (ha raccolto un milione di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare) perché il sistema venga esteso a tutti gli alimenti. «Un modo per evitare di avere passata di pomodoro importata dalla Cina e venduta come italiana», spiega Lorenzo Bazzano, responsabile tecnico-economico della Coldiretti.
I maggiori controlli tengono probabilmente il biologico più al riparo dalle frodi peggiori, come quella scoperta a metà febbraio nel Centro e Nord Italia dai Nuclei antisofisticazione dei Carabinieri (Nas) di Bologna, che hanno arrestato più di cinquanta persone: bovini, suini, polli e tacchini allevati a dosi massicce di antibiotici, ormoni, e altri prodotti chimico-farmaceutici proibiti, alcuni cancerogeni. Il problema è che gli enti di certificazione e controllo del bio (sono dieci quelli autorizzati in Italia dal Ministero delle poli- tiche agricole: Ime, Bios, Bioagricert, Qc&i, Codex, Icea- Aiab, Ecocert Italia, Associazione suolo e salute, Ccpb, Biozert) sono un argine, ma con molte crepe. Innanzitutto perché sono finanziati dagli stessi agricoltori che dovrebbero controllare. Per fare un parallelo, è un po' la stessa cosa che succede con le società di certificazione dei bilanci. Gli agricoltori che richiedono la certificazione, infatti, versano al certificatore una quota annuale e in più una percentuale sulle vendite. Ecco perché anche nel bio ci sono frodi.
Un'indagine nazionale dei Nas, iniziata nel 2001, ha scoperto insalata, kiwi e uva biologici trattati con pesticidi chimici, olio extravergine che in realtà era di semi, mangimi bio a base di organismi geneticamente modificati (assolutamente vietati) e merendine vendute come biologiche senza esserlo. Su 817 campioni analizzati in un anno, 38 sono risultati non in regola, un tasso di illeciti del 4,6 per cento.
A fine 2002 l'operazione «Riso amaro»: i Nas di Cremona e la Guardia di finanza di Vigevano hanno scoperto che due società m provincia di Pavia compravano riso coltivato normalmente (con pesticidi chimici) in Argentina, Ucraina e Italia, per rivenderlo com biologico ad aziende specializzate, soprattutto in Austria e Francia. Otto gli arresti, 116 le persone denunciate e quintali di riso sequestrati.
Uno dei casi più recenti è quello concluso nel settembre scorso, con la denuncia 43 persone, nel ragusano.
Racconta il tenente colonnello dei Nas Mario Pantano: «L'indagine è iniziata nel 2002 e ha portato alla luce illeciti in10 aziende certificate biologiche, che avevano commercializzato a partire dal 2000 oltre 3 mila tonnellate di ortaggi e frutta non a norma. Le accuse vanno da associazione per delinquere a falso in atto pubblico». Alla magistratura sono stati denunciati anche ispettori degli enti di certificazione.
Di pochi giorni fa denunce, sempre nel ragusano, per la commercializzazione di carote biologiche fasulle.
Se non ci si può fidare ciecamente neanche del bio, come si fa allora a essere tranquilli rispetto a ciò che mettiamo nel piatto? Paradossalmente, sono proprio le catene della grande distribuzione, quelle che hanno puntato molto sul biologico, a offrire le maggiori garanzie anche sugli alimenti convenzionali. I grandi supermarket, infatti, controllano direttamente i propri fornitori. Un' indagine dell'associazione Altroconsumo ha mostrato per esempio che i supermercati Gs (Carrefour), Coop ed Esselunga effettuano controlli all'origine e nelle fasi di lavorazione. Talvolta si arriva a imporre (è il caso dell' Esselunga) dei «disciplinari» di produzione che stabiliscono per le sostanze potenzialmente dannose limiti più bassi di quelli imposti dalla legge.
EUROPA DI MANICA LARGA
L'Unione europea elargisce sovvenzioni al 90 per cento delle aziende biologiche italiane. Sono parte di quei sussidi all'agricoltura (un terzo del bilancio della Comunità) che gli stessi esperti di Bruxelles riconoscono essere uno spreco. Più che altro è un trasferimento di fondi a una categoria in difficoltà. C'è il caso, diffuso, di sovvenzioni totalmente «a perdere». Racconta un agricoltore della provincia leccese, meno di mille ulivi coltivati con metodi convenzionali: «Prendo circa 500 euro l'anno per ettaro coltivato, per tre anni. Sono sovvenzioni per la conversione ad agricoltura biologica. Ma non è che io voglia praticare l'agricoltura biologica, anche perché qui nel Salente c'è un solo frantoio ecologico e si fa pagare l'ira di Dio. Poi non saprei a chi vendere: la grande distribuzione, che fa il mercato del bio, usa i propri fornitori, che fanno volumi enormi». Spiega Nicola Di Noia, agronomo e comandante del Nucleo antifrodi Carabinieri di Roma (179 ispezioni effettuate nel 2003; 91 persone denunciate o arrestate; 25 aziende agroalimentari proposte per la sospensione dagli aiuti): «II problema è che l'agricoltura biologica non si può fare sempre e dovunque. Certo, ci sono le truffe da combattere, ma molti agricoltori semplicemente fanno fatica, non potrebbero andare avanti senza i sussidi».
Questo regime non sembra destinato a durare. Buona parte di queste risorse infatti dovranno in futuro andare ai nuovi otto Paesi dell'Europa centrale (più Malta e Cipro) che entreranno a maggio nell'Unione. È perciò prevedibile una diminuzione della produzione biologica in Italia e un aumento nei Paesi dell'Est.

Fonte di informazione: www.ildiario.it